Testo

2. dic, 2016

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L’inizio della storia 

Corri Nino, vieni giù, c'è una telefonata per te dall'Italia " sento gridare dal corridoio.

"Ho appena finito la doccia" rispondo

"Corri,  sbrigati, copriti con qualcosa e vieni giù "

Mi infilo alla meglio i pantaloni del pigiama,  apro la porta e mi precipito giù per le scale appena illuminate da una lampadina da 25 candele. Arrivo giù e tutti i miei colleghi mi accolgono con grandi risate.

"Stupido, ma dove credi di essere? Al Ritz di Parigi?"

Rido anch'io imbarazzato per esserci cascato.

Mi rendo conto però di dovervi una spiegazione.

Siamo nel 1979. Facevo tranquillamente il mio lavoro di giovane ingegnere in una grande società di progettazione e allo stesso tempo insegnavo all'università nell'ambito della cattedra di impianti chimici.  Un giorno mi chiama il mio capo e mi dice: "T.F. andando in bicicletta è  stato investito da un auto e si è  rotto una gamba. Deve andare in Cina per qualche giorno e chiaramente non può.  Lo sostituirai tu, abbiamo già  chiesto il visto.

Non sapevo allora che quelle parole e quell'incidente (non grave per fortuna)  avrebbero totalmente cambiato la mia vita.

Pochi giorni dopo ero su un aeroplano. Cominciava l'interminabile viaggio verso Pechino: sette scali su un minuscolo Boeing 707. Finalmente arrivo, sbarco in uno stanzone poco illuminato dove una persona, appollaiata nella sua postazione mezzo metro più su della mia testa, in una lingua incomprensibile mi chiede qualcosa.  "Sarà il passaporto - mi dico - che altro può essere?" e glielo porgo. Col senno di poi può anche darsi che la guardia mi avesse parlato in inglese, nel "suo" inglese. Mentre aspettavo i bagagli, i miei più quelli che mi avevano dato in ufficio e includevano anche vettovaglie per i colleghi già lì, scorsi dietro un vetro una faccia amica, un collega che mi aspettava.

'Che gentile" pensai. Avrei appreso dopo la ferrea logica della Cina:

"Se sei arrivato fino a qui, vuol dire che qualcuno ti ha invitato. E se qualcuno ti ha invitato, certamente ti è venuto a prendere, altrimenti dove pensi di poter andare da solo?".

In base a questa logica, all'aeroporto di Pechino, capitale di uno stato di quasi un miliardo di abitanti (allora) non c'era uno straccio di taxi. E se anche ci fosse stato, come avrei potuto utilizzarlo, visto che i tassisti parlavano solo cinese?

Finalmente riesco a uscire: un abbraccio ai colleghi e mi viene presentato l'interprete, un simpatico giovane, soprannominato “capoccione". Montiamo su un pulmino sgangherato,  con un finestrino rotto, in cui il tubo di scappamento, passando all'interno dell'abitacolo, fa da impianto di riscaldamento.  Finalmente arriviamo al "Marco Polo Bridge", il confine della città di Pechino dopo il secondo raccordo anulare. Da quel punto in poi nessuno (né Cinese, né  straniero) poteva andare senza uno speciale lasciapassare. Ciò faceva di noi una sorgente di notizie per i giornalisti internazionali, confinati nei loro alberghi a Pechino.

Per inciso, tanto per dare una prima idea di come siano cambiate le cose, oggi i raccordi anulari sono sei ed il settimo è  in costruzione, visto che i nuovi quartieri hanno già superato il sesto. All'interno del sesto raccordo abitano 26 milioni di abitanti: mezza Italia in una sola città.

Usciti da Pechino, le centinaia di migliaia di biciclette cominciano a diradarsi, sostituite da una colonna interminabile di carri trainati da tre cavalli. Sotto la coda di ciascuno di essi c'è un telo, utile per la raccolta delle feci, con il doppio vantaggio di non sporcare troppo le strade e di avere un ottimo stallatico per i campi. All'imbrunire finalmente arriviamo a destinazione.

Era un edificio grande e anonimo. La lobby era altrettanto grande, disadorna e poco illuminata. Sbrigate le pratiche di ingresso, i miei colleghi mi condussero direttamente alla "cantine", la sala da pranzo. Erano già quasi le 18.00 e dovevamo sbrigarci per cena. Anche qui tanti tavoli rotondi ma nessun ospite. Un piatto, un bicchiere e una coppia di chopstick, i classici bastoncini da usare come posate, erano le uniche stoviglie davanti a ciascuno di noi. Delle solerti cameriere portarono un po' di cibo, a me del tutto sconosciuto, una buona birra e questo fu il mio primo pasto. Una forchetta? Impensabile! Ma ero giovane e tutto andava bene. Sbrigata anche la formalità della cena, finalmente presi possesso della mia stanza: una cameretta con un lettino accostato a una parete e un piccolo tavolo sotto la finestra. Anche qui la luce era minima. Tutto l’ambiente ispirava una tristezza infinita. Solo l'indomani mi resi conto che al posto del pavimento c'era una semplice gettata di cemento e che la vasca del bagno era totalmente coperta di ruggine.

Non avrei mai pensato che questa sarebbe stata la mia seconda casa per molti anni.

Quella sera però desideravo solamente una doccia e un letto dopo un viaggio estenuante. C'ero quasi riuscito quando bussarono alla porta per chiamarmi al telefono....

Arrivato nella Lobby, vestito alla meno peggio,  i miei colleghi, dopo aver smesso di ridere mi spiegarono di avermi riservato l'accoglienza tipica per ogni nuovo arrivato.

In quella “guest house" e in tutta la città non c'erano telefoni come li immaginiamo noi (anche se riferendosi a quasi quarant’ anni fa). L'unica possibilità era di rivolgersi al banco in ingresso, spiegare più o meno a gesti che si voleva parlare con Roma, Italia, scrivere su un foglio il numero richiesto e aspettare.

Qui cominciava la cerimonia. L'operatore (!!!) si avvicinava ad un telefono a manovella (come quelli dei film deli anni trenta) cominciava a ruotarla furiosamente sperando che qualcuno al centralino di Pechino rispondesse. Nel frattempo urlava nel microfono qualcosa simile a "hue,hue, hue", l'equivalente del nostro "pronto, pronto, pronto". Ottenuta una risposta, cominciava a urlare "Idalìa, Luoma"  (Italia, Roma) sperando che dall'altra parte capissero,  e poi finalmente il numero di telefono. 

Sembrava fatta, ma era solo l'inizio. Ora bisognava aspettare: Tre ore, quattro, mezza giornata? Bah! Imparai a capire che in quel Paese il tempo non era una variabile da prendere in considerazione: un giorno, un mese,  un anno, non faceva alcuna differenza.

Finalmente il telefono suonava e dopo un'altra serie di "hue, hue" si poteva parlare con un centralino italiano a cui si confermava il numero ed il tipo di chiamata, rigorosamente "collect", cioè a carico del destinatario, perché,  a parte il costo, la procedura di pagamento sarebbe stata un altro affare complicato.

Pensate che questo era l'unico modo di comunicare con l'Italia!  Eravamo un gruppo di naufraghi abbandonati a noi stessi, a cui era stato dato il compito di negoziare,  firmare, portare a casa un grosso contratto per realizzare cinque impianti di materie plastiche..... E poi realizzarli! Beata incoscienza nostra e di chi ci aveva mandati.

Eravamo realmente isolati! L'unico televisore trasmetteva solo in cinese, i giornali erano in cinese, potevamo parlare solo con gli interpreti e attraverso di loro con la delegazione che trattava con noi. Ogni contatto umano era rigorosamente vietato.

In quell'edificio c'erano le nostre stanze, la sala da pranzo, la sala riunioni,  il barbiere......e basta, non c'era altro.

Sveglia la mattina alle 7.00, colazione, riunione dalle 8.00 alle 11.00, pranzo, riunione dalle 13.00 alle 16.30, cena alle 17.00 e poi... si aspettava l'indomani. Si, potevamo giocare a ping pong fra di noi.

Qualche volta si poteva uscire,  ammesso che ne avessimo voglia,  nella piazza antistante l'albergo

La domenica ci conducevano a Pechino e ci lasciavano all'ingresso del Beijing hotel, l'albergo più antico della Cina, dove potevamo pranzare in un vero ristorante, telefonare in una maniera più facile, leggere il "China Daily" un quotidiano in inglese di quattro pagine, e poi eravamo liberi fino alle 16.00. L'appuntamento era al "Frienship store" un negozio in un palazzone di quattro piani dove si vendeva di tutto: generi alimentari, tappeti, seta, golf di cachemire, etc. Comprare e spendere erano l'unica cosa che potevamo fare liberamente!

Dimenticavo di dire che sia il Beijing hotel che il Frienship  store erano rigorosamente riservati agli stranieri, i Cinesi guardavano da fuori!. E ddel resto, anche se fossero entrati non avrebbero potuto pagare. In quei posti infatti accettavano solo la valuta cinese “per stranieri”, i “certificates” che era diversa da quella locale. Mi sembrava una cosa così strana, ma avrei imparato a capire che in molti Paesi in via di sviluppo esisteva lo stesso sistema.

Qualche volta, per farci distrarre, ci portavano in gita: la Città Proibita, il Summer Palace, la Grande Muraglia e le tombe dei Ming erano le nostre mete, le uniche in cui eravamo autorizzati ad andare.

Una volta un dirigente della società nostra Cliente, capendo che non ne potevamo più di quella vita, ci caricò su un pulmino e ci portò appena fuori dalla città dove vivevamo, a vedere “l’uomo di Pechino”, “Homo erectus pechinensis” uno dei fossili più antichi mai scoperti. Ad un certo punto, eravamo appena arrivati e i locali ci guardavano con stupore, una persona avvicinò il nostro ospite e gli disse qualcosa a bassa voce. Immediatamente fummo fatti risalire sul pulmino e riportati a casa: eravamo andati in un posto vietato.

Questa era la vita in quel posto e in quel tempo! Eravamo praticamente in carcere, nessun contatto con i locali, cibo? solo quello che arrivava e talvolta molto poco (a parte le domeniche a Pechino).

Capitò che una persona, un tedesco, la sera si portava in camera una cassetta di birra, passava la notte a bere e a piangere e la mattina, all’alba, andava nel piazzale a suonare la tromba. Era andato fuori di testa e fu rimpatriato!

Noi ci salvammo solo perché eravamo molto motivati e affiatati fra noi.

Ricordo che mio fratello in Italia, pensando che noi fossimo trattenuti lì contro la nostra volontà telefonò anche in ambasciata per capire qualcosa e fortunatamente fu tranquillizzato.

Alla fine, dopo tre mesi, quando eravamo sfiniti, fisicamente e psicologicamente, tornammo in Italia ……. per quindici giorni!  

Questo fu il mio primo viaggio. In seguito vi racconterò altri episodi della vita cinese di quel periodo. Vi anticipo però che quando ora mi capita di andare a Pechino, i giovani locali mi chiedono di raccontar loro la Cina di quei tempi, stupiti e affascinati. E’ un mondo che non conoscono e non riescono a immaginare.  

Ultimi commenti

23.11 | 15:42

Grazie, leggo sempre con piacere i tuoi articoli.

19.09 | 17:02

O.K. !!!

31.05 | 14:33

Grazie a te. So bene che i miei articoli sono abbastanza "pesanti" e quindi talvolta noiosi

31.05 | 13:16

Notevole questo articolo del 30 maggio. Attendo con impazienza il seguito tra un mesetto! Grazie Nino per il tempo che dedichi a provare a colmare la nostra immensa ignoranza. A presto.

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