La mia conferenza Capitolo II

20. giu, 2017

La mia conferenza Capitolo II

La mia conferenza

Capitolo II - L’inizio dei contatti col mondo

Io ebbi la fortuna di arrivare in Cina proprio nel momento in cui il trauma della rivoluzione culturale era passato e la nuova Cina cercava di ripartire in una maniera  più regolare, anche se, vedendone la storia a-posteriori, moltissimi errori furono fatti.

Andare in Cina in quel periodo (fra la fine degli anni ’70 ed i primi anni ’80 era veramente come andare sulla Luna, specie se non si era parte di  una delegazione ufficiale o di un gruppo di turisti (pochissimi) debitamente impaccati e scortati. In entrambi i casi si vedeva una realtà completamente falsa.

Per cominciare, all’aeroporto di Pechino, la Capitale, non c’erano taxi, La logica era STRINGENTE: “Se qualcuno ti ha invitato, e non puoi arrivare in Cina altrimenti, ti verrà a prendere e ti porterà a destinazione”.

Pechino, che attraversai all’imbrunire, era già allora una città immensa, piena all’inverosimile di biciclette che scorrevano ordinate in fila. Per un certo periodo ne ebbi una anch’io, debitamente munita di targa e di documenti di circolazione con tanto di fotografia. < Vedi fotografie in coda>

Percorremmo una strada lunghissima e larghissima che attraversava il centro di Pechino: da un lato la città cinese e dall’altro quella mongola: due architetture, due urbanistiche e due culture diverse come imparai in seguito.

Alla fine della strada c’era il “Marco Polo Bridge”. Il confine al di là del quale gli stranieri e gli stessi cinesi non potevano andare senza un permesso speciale.

Io ero fra i pochi (fortunati o sfortunati) che dovevano oltrepassare la linea fra la libertà e la costrizione personale.

Se infatti a Pechino, Shanghai ed in poche altre grandi città si poteva circolare abbastanza liberamente, questo non era possibile al di fuori.

Arrivammo infine, dopo vaie ore di viaggio fra colonne interminabili di carri a tre cavalli, in una cittadina, Zhou Gu Dian, che sarebbe diventata la mia casa, o il mio carcere se preferite. Infatti, in quell’edificio avevamo la nostra stanzetta, la sala da pranzo (si mangiava rigorosamente con i caratteristici bastoncini) , il barbiere, le sale riunioni, e…. nient’altro ! La televisione era in cinese ed il telefono era una scatola di legno con una manovella sulla destra ed il microfono appoggiato sopra. <Vedi fotografie in coda>

Colazione alle sette, riunioni dalle otto alle 11, pranzo, riunioni dall’una (prima i Cinesi dovevano dormire) alle cinque, cena alle 5.30 e poi… aspettare l’indomani.

Quando non c’era freddo o troppo caldo, potevamo portarci la sedia della nostra stanza nel giardinetto davanti all’ingresso e chiacchierare un po’.

Contatti con i locali: ASSOLUTAMENTE VIETATI. Gli unici contatti possibili erano con gli interpreti/guardiani: erano dei giovani, prevalentemente uomini ma con qualche donna, unici a cui era permesso di parlare con noi. Ho visto gente diventare veramente matta al punto da essere rimpatriata d’urgenza.

Si mangiava quello che c’era, ovvero cavoli ed aglio(onnipresenti), e poi le derrate alimentari che arrivavano a ondate da Pechino. I Cinesi da questo punto di vista erano gentilissimi e cercavano di accontentarci in tutto ma in certi periodi si mangiava veramente poco. C’era pollo, maiale, uova, gamberi e ovviamente riso che aveva il ruolo che da noi ha il pane. A proposito di gamberi, una volta ne arrivò una partita che mangiammo di gusto. Dopo qualche giorno ci servirono una pastella fritta e ripiena: all’interno c’erano i gusci dei gamberi che avevano recuperato (sperammo non dai piatti dei giorni precedenti)! Per qualche giorno ci ritrovammo a mangiare solamente cavoli, noccioline e “irish coffee” vale a dire una bevanda che facevamo con il caffè, il latte condensato ed il whisky che portavamo in gran quantità dall’Italia. Quelli erano i tempi!

A proposito di aglio, se volete avere un’idea della vita nella provincia cinese, incluso i matrimoni combinati, l’influenza delle autorità locali, la corruzione dilagante etc. vi suggerisco un bellissimo romanzo. Si intitola “Le canzoni dell’aglio” ed è ambientato nel 1987 nella provincia dello Shandong. L’autore è Mo Yan, premio Nobel per la letteratura nel 2012.

Nella bella stagione, una volta la settimana, ci portavano al cinema dopo il tramonto. La scena si svolgeva così: ognuno di noi prendeva la sedia della propria stanza e, accompagnati dagli interpreti ci recavamo nella piazza principale assieme a una moltitudine di Cinesi, anch’essi muniti di sedia regolamentare.

Da un lato della piazza era parcheggiato un camion con una macchina da proiezione e dal lato opposto un altro camion con lo schermo; in mezzo c’erano gli spettatori. I film, in cinese, erano normalmente didascalici e gli interpreti, seduti dietro di noi, ci facevano una traduzione in inglese abbastanza puntuale. Mi ricordo un film che parlava del direttore di una fabbrica di ombrelli che si comportava male con i dipendenti, non si dedicava al suo lavoro e quindi si fabbricavano ombrelli scadenti. I clienti protestavano ma lui non se ne curava. Alla fine della storia perdeva il lavoro ed anche la moglie lo abbandonava!

Questo era il livello, ma almeno costituiva un diversivo.

Dopo il film approfittavamo della libera uscita per girovagare un po’ per la cittadina e guardare la gente, con la quale era assolutamente vietato cercare di dialogare: questo era un avvertimento molto serio e importante che ci davano ogni volta.

Una di quelle sere ricordo che durante la passeggiata vidi dei ragazzini attorno a un fuoco; mi avvicinai incuriosito e sul fuoco, appoggiata a una specie di piedistallo, c’era…… una bomba di aereo! Terrorizzato chiamai l’interprete che mi raggiunse, diede un’occhiata, scoppiò a ridere e mi invitò ad avvicinarmi. Nel frattempo da quella bomba cominciò a provenire un crepitio come di mitraglia. Spaventato ma incuriosito mi avvicinai e vidi che sulla faccia superiore del cilindro c’era un’incisione come se ci fosse uno sportello. Passato qualche minuto il crepitio diminuì, i ragazzi con degli attrezzi tirarono fuori dal fuoco la bomba e la poggiarono su un altro supporto. Aspettarono qualche minuto, aprirono lo sportello e tirarono fuori ….. il pop corn, che mi offrirono! La bomba era effettivamente un residuato bellico che avevano svuotato ed era diventata una meravigliosa e robustissima pentola.

In quel periodo il governo aveva lanciato la campagna nazionale per l’apprendimento della lingua inglese e se gli “studenti” erano una moltitudine infinita, potenzialmente tutte le persone fra i sette ed i cinquanta – sessant’anni, i “professori” erano pochissimi. Mi proposero, dopo cena, dalle sei alle sette, di insegnare i rudimenti della lingua inglese ad una classe di ragazzini; in cambio, subito dopo la lezione di inglese, mi avrebbero fatto un’equivalente lezione di cinese. Accettai entusiasta, non tanto per le lezioni di Cinese (pensavo infatti che la mia avventura cinese sarebbe stata di breve durata) ma per il fatto che trovavo il modo di occupare tre o quattro sere la settimana invece di lavorare e poi tornare in branda a leggere un libro. L’esperimento riuscì: i ragazzini impararono a farsi capire in inglese ed io imparai quel po’ di cinese che mi permetteva di affrontare una chiacchieratina con le mie controparti. Purtroppo qualche anno dopo la mia velleità di parlare cinese si interruppe bruscamente e per sempre a causa di un “infortunio” che nacque da una difficoltà di adoperare il tono corretto (sapete infatti che la lingua cinese ha quattro toni e ad ognuno di essi corrisponde un significato profondamente diverso) e tramutò, dicevo, una frase innocente in un terribile insulto.

La vera festa era quando (non sempre) la domenica mattina ci portavano a Pechino. Ci lasciavano al Beijing hotel  <Vedi fotografie in coda> ci precipitavamo a bere una spremuta d’arancio e a prenotare un tavolo al ristorante. Poi con un taxi andavamo in “via degli antiquari” dove con un po’ di fortuna si riusciva a trovare qualcosa di bello e di antico (cosa oggi impossibile) oppure a spasso alla città proibita, dove si poteva entrare liberamente nei padiglioni quasi deserti, oppure al tempio del cielo a vedere migliaia di aquiloni volare altissimi, oppure semplicemente a spasso da qualche altra parte. Eravamo LIBERI! Poi tornavamo a pranzo, in un vero ristorante, dove potevamo scegliere fra un menu cinese ed uno pseudo-occidentale. Dopo pranzo andavamo al “Friendship store”. Inutile dire che sia al Beijing hotel che al Friendship store i Cinesi non potevano entrare e quindi si poteva incontrare tutta la piccola comunità straniera. Il Friendship store era stato aperto poco prima della rivoluzione culturale e, sopravvissuto ad essa, era il posto dove la nostra libertà poteva estrinsecarsi al massimo: eravamo liberi di comprare tutto ciò che volevamo! A dirlo oggi fa venire da ridere, ma mettetevi nei panni di chi si trovava improvvisamente libero di andare dove voleva e di comprare ciò che voleva! Lì trovavamo a pian terreno prodotti alimentari, whisky, sapone, lamette da barba etc. Chi viveva a Pechino poteva anche comprare qualche elettrodomestico. Andando su per i quattro piani si trovava seta di tutti i tipi, golf di cachemire, tappeti sia di lana che di seta, oggetti di vario artigianato etc. Gli oggetti erano ammucchiati alla rinfusa e si poteva trovare un bellissimo tappeto accanto ad un altro con un bel buco, quindi bisognava stare attentissimi. Il vero problema però era un altro e ce ne rendemmo conto anni dopo: tutti noi eravamo preda di vere e proprie crisi compulsive di comprare di tutto e di più. Era il nostro modo di reagire alla solitudine, alla malinconia, alla nostalgia di casa ed alla mancanza di ogni tipo di contatto.

Nel 1982 il grande evento! L’inaugurazione del Jianguo: il primo albergo occidentale in Cina. Un pranzo da Justine era, per noi poveri naufraghi nell’oceano cinese, un qualcosa di memorabile. Ancora, dopo 35 anni ricordo la trota affumicata, le vere bistecche ed il vero vino francese (quello italiano non esisteva).

Verso le cinque del pomeriggio attendevamo nell’atrio mestamente il pulmino che ci riportava alla triste realtà. Questa era la nostra vita ed i nostri piaceri a poco più di trent’anni !  

L’ultima fotografia di questo capitolo vi da un’idea del nostro umore quando, nell’atrio del Frienship store aspettavamo il pulmino che ci riportava alla guest house. 

Ultimi commenti

23.11 | 15:42

Grazie, leggo sempre con piacere i tuoi articoli.

19.09 | 17:02

O.K. !!!

31.05 | 14:33

Grazie a te. So bene che i miei articoli sono abbastanza "pesanti" e quindi talvolta noiosi

31.05 | 13:16

Notevole questo articolo del 30 maggio. Attendo con impazienza il seguito tra un mesetto! Grazie Nino per il tempo che dedichi a provare a colmare la nostra immensa ignoranza. A presto.

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